giovedì 13 marzo 2008

LA CANDELA (marzo 2008)

© Vladimir Kush
Prendiamo una candela, accendiamola e attacchiamola sulla bocca della bottiglia di vino che abbiamo appena bevuto e parliamo.

Parlami anche tu, raccontami quello che pensi e che senti.
Cosa ti fa pensare queste cose? Perché?

Ognuno si trova sempre solo ad affrontare il dolore, sempre.
Ma se il dolore non viene affrontato, ecco le cose non dette, cose di cui ci si pente, cose fatte di nascosto…

Ognuno si trova sempre solo ad affrontare la propria coscienza, sempre.
Ma se la propria coscienza non viene affrontata, ecco che tutto viene ingigantito dalla percezione sballata che abbiamo del mondo, della nostra vita e una valanga si prepara a cadere e coprire tutto, un vulcano carica la lava che erutterà con violenza, la bomba sarà innescata.

Parlami ancora, ho sete delle tue parole ed il vino è già finito.
Con me si parla sempre fino a tardi.
Il sogno deve continuare e continua anche quando siamo lontani.
Continuiamo a parlare in questa notte, ti prego.
Già mi manchi, lo sai?
Il futuro è sempre incerto, anche se la notte ci da coraggio; ma lo sarà sempre.
Nulla capita nel momento sbagliato, non fuggiamo da questa notte.
Dobbiamo solo capire cosa ci sta indicando.
Non sta a noi confidare nell’incertezza, farci prendere dallo sconforto.
Dobbiamo solo gioire di questa notte, di queste parole che ci scambiamo, di questo dono di pensieri e sentimenti.
La felicità ci viene indicata, dobbiamo ignorarla ancora?
Ho faticato tanto a riconoscerla, ad accettarla, ed ora la devo respingere?

Quello che tu vuoi, è per me un ordine.
Quello che io voglio, è per te impossibile.

La candela brucia l’aria delle nostre parole, e lacrima lungo la bottiglia.
Lacrima quello che noi non riusciamo a piangere, brucia quello che noi non riusciamo a bruciare.
Potrebbe però insegnarci cosa vuol dire questa notte.

Parliamo finché la candela non piange.
Ora che piange, iniziamo ad ascoltarci.
La verità sconvolge, provoca dolore: ascoltiamolo, questo dolore!
Ci conosciamo da sempre, io e te, ma dobbiamo ascoltare sempre il nostro cuore.
Se non lo si ascolta, soffriremo ancora e ancora.
Sto ancora imparando a non soffrire, ma mi hai fatto capire molte cose.
Voglio ancora bere le tue parole.

Vedi cosa provoca il mio dolore? Bisogno di parlare, di ascoltare, di ascoltarmi.
Ognuno ha dentro un sole forte e un’ombra impenetrabile, che illumina e oscura chiunque stia ad ascoltarle. Questo è affascinante. Questo da senso a tutto, il bene e il male, la felicità e il dolore.

Il tuo sole e la tua ombra mi attirano e mi abbracciano.
Il tuo sorriso parla, abbraccia, piange, urla.
Per favore, continua a guardarmi.
Ho fame dei tuoi sguardi.
La tua assenza è una carestia.

domenica 9 marzo 2008

Ricordo di domenica mattina


© Igor Zenin
Domenica mattina mi sono svegliata molto tardi.
Chat mi ha svegliata saltando sul mio cuscino e strusciandosi con mille fusa sul mio naso. Strano gatto: mi si avvicina con affetto quasi solo mentre dormo.
E’ saltato subito fuori dalla mia borsa di Mary Poppins di ricordi un episodio di quando ero piccola, molto piccola.
Ero in cucina con mia mamma, una domenica d’estate. Avrò avuto massimo 5 anni. Io dormivo già in camera con le mie due sorelle maggiori, nel piano di sotto di un letto a castello in ferro pieno di figurine dei nostri cartoni animati preferiti, che guardavo insieme a loro ogni pomeriggio.
Quella mattina ero in cucina, avevo fatto colazione in braccio a mia mamma e poi la stavo aiutando a lavare i piatti e a mettere a posto la cucina. Mettevo la sedia di fronte al lavandino e lavavo i piatti, ma mi piaceva lavare soprattutto i bicchieri, perché diventavano trasparenti con mille riflessi colorati, come bolle di sapone. Li lavavo anche 2-3 volte, poi andavo a farli vedere a mio padre, che diceva sempre:” Che bello, sì! Che bello! Brava!”
Mio fratello Walter dormiva in una camera tutta sua, aveva 7 anni più di me, era più piccolo delle mie sorelle di un paio d’anni. Quella mattina si era svegliato ed era venuto in cucina solo in mutande e a piedi nudi, cosa che faceva imbestialire mia mamma. Dopo averlo rimproverato, ho capito che lei era evidentemente di buon umore e le cose hanno preso una piega positiva, ero pronta al peggio, come sempre: lei ha iniziato a pestargli i piedi e dargli pizzicotti sul sedere, dicendo di farlo anch’io per mandarlo a vestirsi e a mettersi le ciabatte.
Così eravamo lì a ridere, a coprirlo di pizzicotti e di solletico, uno dei giorni in cui ho riso di più! Poi, dimenandosi e ridendo, Walter si è liberato ed è corso in camera sua, lasciandoci piegate dal mal di pancia.
Dopo poco, mio fratello è tornato ancora in cucina: era ancora in mutande e a piedi nudi! Ma appena si è avvicinato, andando al lavandino, vediamo che si è attaccato un foglio sul sedere e davanti con scritto “Non toccare!!” e giù risate…
Quella è stata una delle poche volte in cui ho visto mia mamma che non picchiava mio fratello.
Ho visto tante volte W. piangere quando eravamo piccoli, ma per me lui era sempre il fratello grande, credevo fosse logico che da grandi si soffre, lo vedevo quindi come persona grande e mi fidavo di lui.
Mi insegnava tante cose che gli altri non volevano o non avevano coraggio di raccontarmi: cosa gli piaceva delle ragazze, quante compagne di scuola aveva palpato, cosa combinava coi suoi amici, quante volte gli davano la colpa dei disastri fatti dagli altri, come fischiare… Mi prendeva sempre in braccio quando volevo, e quando mi montava sulla sua schiena, mi faceva sempre il solletico dandomi dei pizzicotti sul sedere. Facevamo il bagno insieme, e lui si divertiva a farmi vedere i prodigi del suo pistolino che si muoveva da solo, o quanto riusciva a stare in apnea, o a fare le puzze sott’acqua… Ma quelle me le faceva anche a secco direttamente in faccia!
Mia mamma era contenta che ci volessimo bene, anche perché le mie sorelle praticamente lo odiavano e litigavano spesso con lui, anche insieme.
Io piangevo sempre, ancora prima che chiunque iniziasse a fargli del male, sentivo quello che provava, rabbia e tanta tristezza: piangeva senza singhiozzare, e rimaneva fermo con le lacrime che gli rigavano il viso a fissare la persona che iele stava suonando. Strano che non reagisse: tra gli altri bambini era noto per la sua grande capacità di difendersi. A volte faceva degli urli smorzati lunghi mentre provava gli veniva fatto del male, ma sempre con la rabbia dentro… Lo sento ancora nella gola, quel dolore rabbioso che gratta, pieno di domande: perché? Cos’ho fatto? Sono così cattivo? Perché non riuscite a volermi bene così come sono? Perché nessuno mi vuole bene?
Però, no, io gli volevo bene così com'era, ed avevamo sempre piacere a stare insieme.
Forse è per questo che è andato via di casa a 17 anni per lavorare fuori.
Ma anche quando, 6 anni dopo, è tornato per un paio di mesi a casa, dopo che aveva lasciato la sua ragazza con cui viveva, ancora i miei non avevano cambiato modo di trattarlo, salvo che non lo picchiavano più.
In quell’ultimo periodo, lavorava fino a tardi e spesso andava fuori dopo lavoro, magari in autostrada a prender le sigarette, che fumava a quintali.
I quintali erano anche quelli che premevano il suo acceleratore, e spesso tornava con dei graffi o dei pezzi rotti sulla macchina.
La mattina, prima di andare a scuola, controllavo se era a letto, lo trovavo spesso a dormire sul divano davanti alla televisione accesa, ma l’ho pure trovato a letto con un occhio pesto, perché si era fermato a picchiare due che avevano insultato la ragazza con cui stava in macchina e di cui era innamorato dai tempi della scuola alberghiera.
Che forza, che energia, che velocità! Ne ero spaventata.
Bruciava tutto, mangiava in frettissima, aveva sempre caldo, gli chiedevi di venire in macchina in un posto e arrivava subito, insomma il contrario di me.
Io passavo il tempo a contemplare tutto, anche troppo, stavo male e lui l’aveva capito: mi portava sempre fuori, stava quasi sempre con me, anche perché non riuscivo a studiare.
Stavo per perdere l’anno e lui mi aveva chiesto se andavo a lavorare in stagione estiva con lui. Ero d’accordo. Pensavo che avrei lasciato la scuola, non ce la facevo più. Pensavo che la gente era tutta marcia, tutti opportunisti che non vogliono da te niente che abbia a che fare col tuo vero te, ma solo quello che gli serve.
Vedevo le mie compagne di classe col ragazzo, o che facevano le oche per conoscere uno, o ragazzi che mi evitavano perché avevo l’aria triste, mi disgustavano tutti.

Dopo tanti anni, sono arrivata al punto di pensare che non avevo così tanto torto.
L’unica persona che si salvava veramente era mio fratello.
Peccato che quel quintale sull’acceleratore non sia mancato in quell’ultima notte di forti temporali a fine maggio.
Peccato che quella curva a gomito non si sia raddrizzata al suo passaggio impetuoso.
Peccato che il platano che ha accartocciato la sua macchina non si sia gonfiato di nuvole e foglie.
Non smetterò mai di pensarlo, anche in momenti diversi dalla domenica mattina, e non smetterà mai di mancarmi.
Fratello, mi senti? Cosa sarei diventata senza di te?