giovedì 6 aprile 2006

IL LEGAME CHE CI UNISCE (2006)




1880

Una giovane donna è intenta alle faccende da donna per bene in età da marito: siede su una sedia e ricama un fazzoletto tenuto teso sul suo cerchio.
Sembra concentrata e tranquilla ma ad un tratto si ferma e fissa il vuoto per qualche lungo secondo nel quale inizia a formarsi lentamente un’espressione di tristezza che disturba il suo lavoro.
Allora appoggia fazzoletto e ago dopo essersi guardata intorno, si alza dopo aver guardato un punto, come se avesse trovato ciò che stava cercando e si dirige in quella direzione.
Arriva dall’altra parte del salone in cui stava ricamando e si ferma davanti a un mobile su cui sono posati vari soprammobili e dagherrotipi incorniciati. Ne prende uno che ritrae un giovane e lo guarda con tristezza, anche se pensa che quell’impressione sulla carta dia solo un cenno di ciò che vorrebbe rappresentare e questa discrepanza acuisce ancora di più il senso di lontananza e malinconia che prova. Forse questa nuova invenzione serve solo a star peggio mentre le si guarda.

1936

Una giovane segretaria di buona famiglia è intenta nel suo lavoro: scrive a macchina, ordina fogli, scrive, telefona. E’ ben curata nel suo modesto aspetto da donna né povera né ricca: capelli pettinati, trucco sobrio, vestiti puliti e stirati, profumo dolce ma discreto.
Ad un certo punto, mentre è seduta alla scrivania, si aggiusta la camicetta e si ferma a fissare il vuoto, mentre lentamente inizia a comparire un sorriso che però si trasforma in espressione triste.
Dopo qualche secondo prende la borsetta appesa all’attaccapanni assieme al soprabito e tira fuori un ciondolo con la foto di un giovane. Mentre lo guarda, la sensazione di lontananza diventa sempre più forte e prende forma nei suoi occhi, che materializzano un velo liquido e salato e pare che fatichi a lasciare la sorgente, stipandosi e ingrossandosi a tal punto che scoppia appena si tuffa dal sottile trampolino cigliato. Scivolando dense sulle guance della ragazza, le lacrime le riportano alla mente quante volte quella stessa scena si è ripetuta e quante ancora si ripeterà.

1977

Un’adolescente vestita tutta colorata sta facendo i compiti e scrive sul suo quaderno mentre canticchia la canzone che sta ascoltando col suo mangiadischi: è la sua canzone preferita, le mette allegria e le infonde quel profumo dei fiori di cui è figlia, tutto prende senso e le viene la voglia di fare che spesso le manca.
Mentre sta finendo il suo compito scritto, alza in attimo la penna dal foglio per pensare a come continuare, ma si blocca un po’ troppo finché pare astrarsi sia dal compito sia dalla sua canzone preferita così piena di gioia.
Sul suo viso contornato da una cascata di capelli lunghissimi, sotto gli occhiali per cui viene spesso presa in giro, inizia a formarsi prima un’espressione corrucciata e poi, gradualmente amarezza e infine semplice e pura tristezza.
Allora si alza e va a prendere una foto di due ragazze sorridenti che tengono in braccio due gatti.
Mentre la osserva, le lenti si appannano poco alla volta e chiudono a cerchio l’immagine della foto, stringendo il suo campo visivo come fosse una finestra che da su un panorama invernale e si riempie di condensa.
Mentre rimetteva la canzone preferita senza staccare lo sguardo dalla foto, pensava a come in realtà siamo tutti dei palloncini che si credono chissacchì, ma che invece siamo sballottati da vento e intemperie finché qualcosa ci fa scoppiare e riportare i piedi e il nostro corpo per terra.

1998

Una nonna riposa seduta sul divano, intenta a leggere il giornale mentre beve il suo primo caffè della giornata.
Legge interessata, finché scorge un nome di battesimo a lei familiare, si ferma e stringe a sé il gatto che riposava facendo le fusa sul suo grembo. Si aggiusta gli occhiali, prende la lente per leggere meglio e si ferma. Appoggia giornale e lente sul tavolino a lei vicino, si alza a fatica soffocando un lamento per il dolore alla schiena e apre un cassetto di un mobile vicino.
Il gatto saltato giù la guarda dolcemente sbattendo gli occhi per osservare bene quando si sarebbe riseduta.
La nonna tira fuori dal cassetto una foto che ritrae un giovane schietto e sorridente con gli occhiali da sole, quello che porta il nome a lei familiare.
Poi prende un’altra foto ingiallita che ritrae un altro giovane, meno sorridente, in divisa militare, chino ad accarezzare un cane nero. Anche quel giovane d’altri tempi ha lo stesso nome e a nonna inizia a deformare il bel viso in una smorfia di tristezza, fermandosi soprattutto sulla foto del giovane sorridente, fotografato giusto nella sua terrazza non troppi anni prima.
Il suo sorriso così grande e innocente taglia ancora più in profondità le ferite che aveva lasciato dentro di lei, ormai letti di fiumi che non scorrevano più di nulla.
Scorge la somiglianza dei tratti dei due giovani e pensa a quanto è crudelmente buffa una somiglianza di tratti, di nome e di vita. Ma questa somiglianza non era il punto della questione: quante persone potevano somigliarsi in quel modo anche senza conoscersi.
Poi una sventura legata a quel nome non poteva essere razionalmente possibile, anche se nella stessa sua famiglia c’erano, nello stesso ramo, un nonno ed un nipote legati da tanti punti più in comune quanti se ne possa immaginare.
Quanto dolore, che disgrazie! E se lei avesse avuto un bis-nipote con lo stesso nome, dal quello stesso ramo già sfortunato anche per tanti altri versi, sarebbe andata a finire allo stesso modo?
La nonna si siede con la foto in mano, con l’articolo del giornale ritagliato e abbraccia il gatto saltato subito in grembo, singhiozzando come fosse per la prima volta il dolore rinnovato.